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25 luglio 1943. Ottant’anni fa cadeva il fascismo.

Con oggi avviamo una serie di pubblicazioni relative a ricorrenze particolarmente significative della storia del paese. L’intento è quello di tenere viva la memoria e quindi ricostruire quel contesto storico che spesso condiziona ancora il nostro presente. Contesto che certamente ci permette – magari per chi volesse poi  approfondire – di riportare alla luce eventi che hanno costituito spartiacque e che hanno contribuito a rendere il presente per quello che è oggi. L’auspicio che a questi articoli se ne affianchino altri che possano raccontare fatti storici della nostra regione, delle nostre città, fino alla micro storia e magari al eventi della storia sociale. Un piccolo contributo per il illuminare il passato senza velleità del rigore storiografico o del contributo al dibattito fra addetti ai lavori, ma per aiutare magari a ricostruire un contesto, dove l’oggi è sempre figlio dello ieri, e conoscere quest’ultimo aiuta a avere consapevolezza per costruire il domani. Visti gli spazi e le premesse, dovremo concedere qualcosa al didascalico, ma fidiamo nella comprensione dei motivi di questa concessione

25 luglio. Esattamente ottant’anni fa cadeva il regime fascista. Vent’anni di barbarie, di dittatura, di cancellazione delle libertà e dei diritti di cittadine, cittadini, lavoratrici e lavoratori, si dissolvevano  – almeno dal punto di vista formale e statuale – in una giornata. Il contesto.  L’Italia è in guerra dal giugno del 1940. Nelle intenzioni di Mussolini avrebbe dovuto essere una passeggiata, “alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace da vincitori” disse il dittatore. La Francia era sconfitta, si sarebbe arresa dopo pochi giorni e noi gli avevamo dato “la pugnalata alla schiena”come si disse, la Gran Bretagna era l’unica in piedi di fronte  quasi tutta l’Europa alleata o occupata dai nazisti, ma era praticamente senza armi di terra dopo la fuga del contingente inglese da Dunkerque e in balia – ma meno di quanto si pensasse – dell’aviazione tedesca. Non sarà una passeggiata. Come non lo è mai nessuna guerra, insensata e folle in sé. Subito la “guerra parallela” (con la quale si intendeva denineare la brama di conquista fascista autonoma da quella nazista) si trasforma in una trafila di sconfitte militari e di drammi. La perdita dell’Africa orientale, della Libia, il salvataggio tedesco in Grecia, fino al dramma più assoluto, la partecipazione alla campagna contro l’Unione Sovietica e la catastrofica ritirata. Dopo Stalingrado la storia volta pagina, gli anglo americani sbarcano in Sicilia e arrivano velocemente a Palermo. Nel frattempo il paese è sotto le bombe degli Alleati, che culminano il 19 luglio con il bombardamento di Roma e lo stesso 25 luglio con quello di Livorno. La situazione alimentare delle cittadini e cittadini è in molte zone allo stremo, il paese non ha quasi più scorte, una struttura industriale mimimamente efficiente – che già aveva visto imponenti scioperi nel marzo precedente, in buona parte grazie alla rete tenuta in piedi dal Partito Comunista in clandestinità -. Già alcuni all’interno della struttura del regime avevano pensato – non ultima poco prima dello scoppio della guerra – a sbarazzarsi di Mussolini, con la velleitaria, fortuna, idea di mantenere il fascismo senza il suo fondatore, ma ora tutto crolla e il colpo di mano prende corpo. Al suo centro c’è senz’altro il re, quello che aveva permesso l’intaurazione del regime, firmato le leggi razziali, permesso le atrocità del fascismo, ora intende agire. Ma ha bisogno di un’appiglio formale. Questo gli viene offerto su un piatto d’argento dalla convocazione del Gran Consiglio del Fascismo – organismo consultivo senza alcun potere reale, non più convocato dal ’39 per il giorno 24. Su questa convocazione si è parlato di un Mussolini consapevole dei rischi e addirittura d’accordo con la sua defenestrazione, una certa storiografia di area moderata indulgerebbe su questa interpretazione. Sia come sia l’altro protagonista è Dino Grandi, ex ministro degli esteri e molto vicino ad ambienti anglo americani, che prepara il famoso ordine del giorno da presentare alla seduta. Precisiamo che il testo non chiede le dimissioni di Mussolini, ma “semplicemente” il ripristino delle prerogative del re in fatto di comando delle  forze armate, ma tanto basta. Molti dei “gerarchi” che lo approvano – 19, la maggioranza, gli altri contrari e un astenuto – non sanno nulla di cosa possa significare, men che meno di quello che c’è dietro, ma nella nottata si vota e l’odg passa.  A quel punto scatta la seconda parte del piano: nel pomeriggio Mussolini si reca dal re per avere nuovamente la sua  fiducia, ma viene arrestato e portato via in un ambulanza. Inizierà le sue peregrinazioni fino al Gran Sasso, dove verrà prelevato dai tedeschi a settembre. Il re nomina capo del governo Pietro Badoglio, un altro miracolato dal regime e criminale di guerra. Le strutture del regime non reagiscono, i tedeschi sono presi di sorpresa. Badoglio forma di fatto una giunta militare, inizia lentamente la liberazione dei prigionieri politici ma non fa uscire formalmente dalla clandestinità i partiti antifascisti, che comunque iniziano a riorganizzarsi. Quello che preme è tenere il paese di fatto in stato d’assedio, col governo e il re che reprimono ogni manifestazione anche nel sangue. La guerra continua. Ma si pensa che il peggio sia passato, e quando, l’8 settembre, viene annunciata la firma dell’armistizio, sembra di avere la conferma. Non sarà così, ma questa è un’altra storia.

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