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Più che lavoratori, manodopera sacrificabile nella “rossiccia” Toscana

Alle (ingenue?) speranze che il “dopo-Covid19” sarebbe stato radicalmente diverso rispetto al “prima”, si sta sostituendo un’amara e sempre più disperante constatazione che non solo non è cambiato niente, ma in queste settimane (ormai mesi) la lotta di classe esercitata dal padronato si è fatta più aspra e impietosa. Non solamente e non tanto per la pressione che le associazioni industriali (Confindustria in testa) e commerciali hanno impresso su Governo, Regioni, Comuni per “riaprire tutto” a prescindere dai dati e dalla necessaria prudenza consigliata, quanto per la continuità produttiva che sottotraccia è stata mantenuta attiva – per tutto il periodo di presunto “blocco totale” (lockdown) – anche in aziende che non sarebbero dovute rientrare nella condizione di essenzialità (nonostante i famigerati codici ATECO glielo consentissero: un esempio per tutti, la Nuova Pignone di Massa).

All’apertura della fatidica “fase 2”, pur in condizioni epidemiologiche meno gravi, la situazione non è però definitivamente sicura e le condizioni con cui sono stati riaperti i cancelli delle fabbriche e riattivato le linee produttive non sono realmente sotto controllo. Infatti, i protocolli tanto sbandierati e stilati da aziende e organizzazioni sindacali non garantiscono veramente lavoratori e lavoratrici dai pericoli di una nuova esposizione al virus, con il rischio della riaccensione dei contagi. Non stiamo parlando della Lombardia, dove le responsabilità degli imprenditori, oltre a quelle della politica e dell’amministrazione della Lega, sono palesi: no, stiamo parlando della “rossiccia” Toscana, in cui le grandi fabbriche stanno riaprendo, ma senza vere e proprie garanzie per i lavoratori, trattati come mera manodopera sacrificabile.

Iniziamo dalle acciaierie JSW di Piombino, in provincia di Livorno, che hanno riaperto i cancelli secondo le indicazioni nazionali a circa 700 lavoratori su 1600, e il resto ancora in cassa integrazione: in realtà, la produzione non si è mai interrotta, perché un reparto di circa 35 persone non ha mai chiuso, con la giustificazione della necessità di spedizione di rotaie all’estero (e per questo l’azienda si è anche appellata al Prefetto, per poter mantenere aperta la linea); l’azienda ha dunque predisposto la sanificazione e le protezioni previste, ma continuano a mancare – come ha continuato a denunciare l’USB presente in fabbrica – un piano industriale sostenibile e un orientamento credibile, e soprattutto investimenti nella sicurezza per la manutenzione di macchinari e capannoni. Ciò dimostra che, pur applicando le indicazioni per preservare la salute degli addetti dal rischio di contagio, la prospettiva futura si offusca ancora di più, e in questo clima si diffonde la paura tra lavoratori e lavoratrici.

A Siena, nell’unità produttiva della Whirpool, la situazione è invece abbastanza buona: sul fronte della sicurezza, già da prima della chiusura totale, erano già stati firmati quattro accordi e stilati protocolli assai migliorativi rispetto agli standard nazionali, sia precedenti che posteriori al Covid19; la fabbrica ha potuto così riaprire garantendo la sicurezza ai 350 (tra operai e impiegati) rientrati al lavoro. Tuttavia, anche in una situazione virtuosa come questa, tuttavia vi sono alcuni aspetti problematici: il primo è la pressione dell’azienda sulle RSU e sulle organizzazioni sindacali per riaprire anticipatamente, tant’è vero che già dalla seconda metà aprile sono stati riaperti i cancelli: dei delegati RSU solo quelli Cobas e FIOM hanno mantenuto la posizione di attendere il 4 maggio, mentre gli altri hanno ceduto alle pressioni aziendali e delle proprie centrali sindacali. Nonostante tutto però, anche qui ci si scontra con una realtà in cui gli operai subiscono un accerchiamento da più parti (azienda, OO.SS., Enti Locali, perfino il Prefetto che con la regola del silenzio /assenso ha di fatto dato il via libera alla riapertura anticipata) e sono costretti ad accettare le imposizioni dettate della logica del mercato e del profitto.

A Pontedera in provincia di Pisa, una delle più grandi fabbriche del centro (e in generale d’Italia), la Piaggio, ha riaperto annunciando ogni cautela e garanzia, ma solo in apparenza.

In particolare in quest’ultima fabbrica, è di pochi giorni fa la notizia che i delegati RSU FIOM in Piaggio hanno denunciato come, per compensare le perdite dei mesi scorsi, la produzione sia ripresa a pieno regime, ma senza alcuna cautela, senza alcun rispetto del distanziamento, a turni pieni e con organico al completo, cioè esattamente quello che non si dovrebbe fare in questa fase delicatissima; inoltre, sono state eliminate anche le pause durante i turni – con la scusa di evitare gli assembramenti – creando un grande disagio a chi è costretto a lavorare per otto ore continuativamente con mascherine, in condizioni di assembramento sulle linee produttive.

Si aggiunga oltretutto che, a quanto scritto dai delegati FIOM, i dispositivi personali sono totalmente inappropriati e non sono stati effettuati test sierologici né tamponi, che sono considerati strumenti essenziali per individuare eventuali positivi che dovrebbero essere immediatamente isolati per l’osservazione e per evitare che infettino altri.

I protocolli non sono in realtà altro che i risultati al ribasso delle trattative tra l’azienda e le OO.SS., senza che siano interpellati i lavoratori, le RSU e i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, a cui vengono semplicemente comunicate le decisioni e gli accordi già conclusi.

Non è accettabile che, per inseguire le richieste di un mercato che con l’estate potrebbe tornare ad essere florido, si sacrifichi ogni precauzione e si impongano turni a pieno regime, organici al completo, anziché adottare una turnazione che consentirebbe di mantenere distanziamento ed evitare nuovi contagi.

Per tutti questi motivi è stato indetto uno sciopero di due ore il 7 e l’8 maggio, con l’obiettivo di ottenere una riduzione del numero di lavoratori nei turni, la riduzione degli orari e il ripristino delle pause.

Si aggiunga infine che, se anche queste grandi aziende possono garantire standard di sicurezza comunque accettabili, tutte il mondo dell’indotto e della logistica non è sempre in grado di garantire (o cerca di eludere) altrettante adeguate misure di prevenzione e protezione per i propri addetti: in questo modo, solo una parte delle attività collegate alla produzione risultano protette, mentre intorno circolano lavoratori e lavoratrici che potrebbero essere a rischio contagio per sé e per gli altri con cui vengono in contatto.

Come al solito, la logica del profitto si impone su ogni altro criterio: la regione Toscana, con l’intrepido Enrico Rossi, si contraddistingue anche in questo frangente nell’avallare il modello produttivi sta, al di sopra di ogni altra esigenza, perfino in una situazione di pandemia come quella che stiamo attraversando, permettendo che grandi aziende come quelle che abbiamo portato ad esempio scarichino in gran parte sui lavoratori la responsabilità della propria sicurezza e della propria salute.

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