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Da Enrico Rossi a Eugenio Giani la strategia è la stessa. Evitare di muovere un dito sul programma di de-industrializzazione in atto in Toscana.

La notizia che da marzo la multinazionale belga Bekaert procederà con i licenziamenti dei 176 operai del sito di Figline Valdarno giunge come la conclusione, annunciata già da più di due anni, dell’ennesima aggressione portata contro l’occupazione e il lavoro nella nostra regione. Quello che si va a colpire è un settore di qualità: non ci sono motivazioni di carattere produttivo, ma la decisione è avvenuta sulla base della cinica valutazione del contenimento del costo del lavoro a favore dei profitti da parte della multinazionale proprietaria, con la delocalizzazione della produzione in Slovacchia e Romania. A questi lavoratori rivolgiamo tutta la nostra solidarietà come Rifondazione Comunista, apprestandoci ad avanzare una critica complessiva alle politiche regionali e nazionali sul lavoro, e alcune proposte programmatiche necessarie.

Nonostante le dichiarazioni di disappunto di Giani, che seguono a quelle dell’ex-Presidente Rossi, riteniamo che questa vicenda non sia altro che la conferma di una politica della Regione Toscana e di molte amministrazioni comunali (sia di destra che di centrosinistra) tesa a soddisfare le richieste di aziende private e multinazionali che si avventano sui territori per depredarli di risorse e manodopera fino a quando non trovano più conveniente spostarsi in altre zone alla ricerca di migliori profitti.

Il caso della Bekaert non è né il primo né l’ultimo che ha una dimensione nazionale oltre a quella regionale: ricordiamo Rational a Massa Carrara, Erickson e Mondomarine (ex Cantieri Navali) a Pisa, la TMM a Pontedera, JSW Steel Italy a Piombino, per citare solo alcuni dei casi più drammatici degli ultimi anni.

La Regione Toscana non ha competenze dirette per intervenire e impedire che queste aziende rapaci e irresponsabili (cioè, letteralmente prive di responsabilità perché non vincolate a nessuna condizione per impiantare le proprie produzioni in un territorio) aprano e chiudano stabilimenti senza alcun altra preoccupazione che i propri profitti: tuttavia, le politiche del lavoro regionali potrebbero avere un’altra direzione se, anziché incentivare le innovazioni tecnologiche contro l’occupazione (come l’industria 4.0) o favorire il proliferare di multinazionali che fanno dello sfruttamento intensivo dei lavoratori la loro principale caratteristica (vedi: Ikea, Amazon…), avviassero un serio progetto di reindustrializzazione delle aree dismesse avviando produzioni di qualità e ad alto contenuto di compatibilità ambientale, oppure il rilancio dell’economia pubblica attraverso opere di cura e tutela del territorio.

Quello che invece rileviamo è la perfetta continuità tra le politiche per il lavoro di Rossi e quelle di Giani, che insistono su inesistenti piani di riconversione dei lavoratori tramite corsi di formazione costosi, in buona parte inutili, privi di una reale ricaduta occupazionale e in termini di reddito.

Crediamo che sia invece necessario un intervento dello Stato in coordinamento con le amministrazioni regionali e locali per acquisire e mettere sotto il controllo pubblico i siti produttivi di aziende che de localizzano solo per motivi di convenienza economica; per avviare un processo con l’obiettivo della riduzione dell’orario a parità di salario; per lanciare un piano per il lavoro su scala regionale, che si integri con il livello nazionale, al fine di restituire una prospettiva occupazionale, economica e salariale, di sviluppo eco-sostenibile.

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