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Nei giorni scorsi i sindaci PD di Firenze, Prato ed Empoli hanno annunciato l’avvio del percorso per la creazione della MultiutilityToscana per la gestione dei servizi pubblici (acqua, energia, ambiente).

Pensavamo di assistere ad un vecchio film degli anni 90, ma era tutto vero ed attuale.

Rispunta, dopo venticinque anni, un progetto già fallito per molte ragioni. Ed ora come allora a spingere verso tale soluzione non è l’interesse dei cittadini, ma principalmente ragioni interne al PD.

Il problema non stà nel nuovo dimensionamento di un’azienda pubblica, che potrebbe anche realizzare, attraverso la sua estensione territoriale, economie di scala, ma nel fatto che il processo è accompagnato dalla reiterazione della forma privatistica di gestione (SPA) e addirittura dall’auspicato ingresso dei privati in forma rafforzata.

Elementi che hanno già determinato l’impennata del costo delle bollette a Firenze ed anche in buona parte della Toscana (oggi tra le più alte d’Italia), esito nefasto accompagnato:

  • da bilanci in rosso spesso delle nuove aziende che avevano rilevato le vecchie strutture di gestione comunale
  • da forte conflittualità istituzionale
  • da qualche intervento della magistratura
  • da guerre intestine per accaparrarsi i posti nei CDA

All’incapacità di programmazione si è quindi accompagnata la perdita di trasparenza e di partecipazione dei consigli comunali, senza nessun coinvolgimento dei cittadini.

L’annuncio è il solito, andare in borsa, mettere nelle mani del mercato del tutto o in parte le sorti della nuova creatura vantando la presenza di un azionariato diffuso. Una foglia di fico che non nasconde il fatto che è il partner privato quello che decide e non i piccoli azionisti dei comuni coinvolti. Infatti, a parte di preventivi atti di indirizzo, non si parla di nessuna altra loro competenza. Come se un cittadino per avere voce in capitolo o almeno accesso agli atti dovesse farsi socio. Siamo alla privatizzazione dell’interesse pubblico!

Sui patti parasociali che potrebbero almeno mitigare la situazione, infatti silenzio assoluto.

Tutto con il rischio che le passività economiche finiscano ancora una volta in bolletta con il miraggio della “nuova e potente multi utility”.

Come denunciato anche dai movimenti per l’acqua, siamo all’amarcord degli anni 90, gli anni del “privato è bello”, quando ancora non c’era stato il referendum popolare che aveva bocciato la privatizzazione dei servizi pubblici e reso possibile, anche per quelli a rilevanza economica, forme diverse di governance e mandando in soffitta l’obbligo di remunerazione garantita del capitale investito.

L’argomento è sempre lo stesso: i privati servono per mettere a disposizione i capitali (ovviamente detratti quelli che dovremo sborsare per chiudere i vecchi conti).

Ma i servizi pubblici non devono garantire diritti primari e non speculare in borsa?

La molla è sempre il profitto, ma c’è il sospetto che dietro ci sia anche la ricerca -da parte del PD – di un modo per mantenere, nonostante la perdita di non poche amministrazioni comunali, il controllo della cassaforte dei servizi attraverso nomine strategiche nei CDA.

I bacini ottimali e la programmazione su scala regionale – anche quando fosse aggiornata e le assemblee degli ATO funzionassero, cosa che non è – non possono eludere il ruolo fondamentale dei consigli comunali, insomma dalla comunità.

Il sovradimensionamento di forme privatistiche come le SPA e la delega di funzioni alle Giunte in un rapporto impari tra piccoli e grandi comuni, ha creato mostri e reso, in questi anni, oscure le vicende di servizi essenziali. La giusta risposta non può essere che un equilibrio tra esigenza di evitare l’eccessivo frazionamento e la individuazione di “bacini ottimali”, con la necessità di non separare la gestione dei servizi pubblici dai territori garantendo nuove ed efficaci forme di controllo e partecipazione dei cittadini. Su questa materia dovrebbe intervenire la legislazione regionale, non limitandosi al plauso incondizionato di Giani sull’intera operazione.

Un ruolo regionale che segna il passo sia sul piano energetico e ambientale che su quello dei rifiuti fermo al palo da 5 anni, in sosta pericolosa sulla logica degli inceneritori. Per non parlare della confusione che si è registrata in alcuni ATO sull’applicazione dei vecchi piani.

In una quadro del genere è credibile l’operazione della multi utility?

Chi darà gli indirizzi politici e li farà rispettare, fungendo non da spettatore?

Le istituzioni rischiano di rimanere subordinate alle scelte degli amministratori delegati, e i piani che verranno (se verranno) saranno sotto loro dettatura e non viceversa.

Tutto ciò mentre scoppia la “partita” sul recovery fund che non si sa cosa conterrà, e che dovrebbe essere deciso da manager spesso in conflitto di interesse, anche sui temi di acqua rifiuti ed energia, in un quadro geo politico di tensioni, con uno scontro aperto nel bel mezzo del mediterraneo per il controllo dei giacimenti sottomarini, in grado di cambiare repentinamente i riferimenti economici e finanziari di ben altri “colossi” dell’energia.

Anche dal punto di vista istituzionale il procedere sul cosiddetto regionalismo differenziato aprirebbe altri fronti di instabilità e possibili competizioni interregionali.

Insomma in una condizione di estrema indeterminatezza, si rischia di sottomettere ulteriormente l’interesse dei cittadini di avere servizi migliori ad un costo più basso (e di tutela della risorsa acqua per le generazioni future), ad un grande e pericoloso gioco di finanza competitiva.

Altro che svolta verde ed avanzamento della democrazia, altro che nuovo ruolo del pubblico, qui la partita sembra essere sempre la stessa e stessa la posta: profitto e potere.

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