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Lavoro, sicurezza e ideologia secondo Enrico Rossi

Il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi ha, in queste settimane, assunto posizioni e decisioni che molti hanno considerato “di sinistra” rispetto a quelle di Presidenti di altre Regioni (appartenenti allo schieramento di destra, soprattutto della Lega come Fontana o Zaia); tuttavia, nelle pieghe degli atti ufficiali trapelano scappatoie e soluzioni orientate a difendere prevalentemente gli interessi dell’imprenditoria privata, assieme alla volontà di assecondare le richieste delle lobby commerciali e turistiche allentando le restrizioni, pur in presenza di indicatori che invitano ad una grande cautela.

Vogliamo ricordare, come premessa, che sul piano sanitario in questi anni la Giunta Regionale guidata da Rossi ha proceduto a smantellare pezzo a pezzo la sanità pubblica, favorendo quella privata: in Toscana i tagli alla sanità sono stati ingentissimi (45 milioni di euro in meno negli ultimi due anni, la chiusura di 5 ospedali in dieci anni, la perdita di 450 posti letto, una devastazione iniziata già nei dieci anni precedenti quando Rossi era Assessore alla Salute, culminata nella Legge Regionale n.28/2015 che ha ridefinito l’assetto delle Aziende Sanitarie Locali ASL accorpando in tre le dodici esistenti) provocando liste di attesa interminabili e la nefasta riduzione della medicina territoriale, che oggi abbiamo compreso essere il primo e forse decisivo strumento per il contenimento di epidemie come quella che stiamo attraversando.

Nel contesto dell’epidemia pandemica, l’ineffabile Presidente Enrico Rossi ha quindi emanato una serie di Ordinanze Regionali che hanno come oggetto l’attuazione di “misure per il contrasto ed il contenimento sul territorio regionale della diffusione del virus COVID-19” nella fase in cui, gradualmente, si vanno a riaprire le attività: leggendo i provvedimenti, è abbastanza evidente l’intenzione di dare indicazioni dettagliate e prescrittive ai datori di lavoro, responsabili degli esercizi commerciali e dei luoghi i lavoro pubblici e privati; dall’altra, però, ci sono passaggi che sollevano notevoli perplessità per la genericità e l’allusività, che creano una fumosità mistificante.

Ma andiamo per ordine: in buona parte delle Ordinanze, il richiamo ai doveri del datore di lavoro è esplicito: per la sanificazione degli ambienti, prima e dopo l’attività lavorativa, la necessità che siano approntati dispositivi per l’igiene delle mani, strumenti di protezione monouso come mascherine e guanti, distanziamento e scaglionamento in entrata e in uscita, insomma tutto quanto è necessario perché lavoratori e lavoratrici rientrino nei propri luoghi di lavoro in piena sicurezza.

Vi è un punto però che viene buttato lì a margine, e sembra scivolare via nell’indifferenza: nella N.33 del 13 aprile, al punto due, ripresa dalla N.38 del 18 aprile al punto 4, dopo aver prescritto al lavoratore “il divieto di recarsi sul posto di lavoro e l’obbligo di rimanere al proprio domicilio in presenza di febbre o altri sintomi influenzali, suggestivi (sic!) di COVID-19.”, si precisa che “Il datore di lavoro è tenuto ad assicurarsi quotidianamente, all’inizio del turno di lavoro, il rispetto della presente disposizione”, cosa essenziale e decisiva, salvo poi aggiungere “anche mediante autocertificazione da parte del dipendente.

La questione dell’autocertificazione è regolamentata dal DPR 445 del 28 dicembre 2000, in cui si specifica che tale dichiarazione non può sostituire il certificato di sana e robusta costituzione rilasciato dal medico curante o dallo specialista in medicina dello sport per attività sportive continuative, né tantomeno quello di buona salute rilasciato dall’ufficio di medicina legale dell’ASL a fini lavorativi. Oltretutto, la Direttiva n.14/2011, registrata dalla Corte dei Conti il 24/02/2012 ribadisce che i certificati medici, sanitari ecc. non possono essere sostituiti.

Non solo: un’autodichiarazione infondata e illegittima, in quanto nessuno può sostituirsi a un medico che certifichi lo stato di salute, diventa reato in caso di falsa dichiarazione secondo l’articolo 495 del Codice Penale, con pene da uno a sei anni, peraltro inasprite a un minimo di due anni dal ‘Pacchetto Sicurezza’ per “atti dello Stato Civile”.

Perché dunque inserire nell’Ordinanza questa formula che apre la possibilità alle imprese di non adempiere ai doveri che l’Ordinanza stessa indica? Il senso di questo passaggio dell’Ordinanza costringe necessariamente ad una valutazione politica: la Regione Toscana del Presidente Rossi e il sistema di potere incardinato sul Partito Democratico danno evidentemente la priorità agli interessi delle aziende piuttosto che alla tutela della salute di lavoratori e lavoratrici, sia privati che pubblici. Indicare obblighi per i datori di lavoro, ma offrire immediatamente una via di uscita per evitare l’acquisto di strumenti per la verifica della temperatura significa scaricare su lavoratori e lavoratrici la responsabilità con una autocertificazione: ovviamente, questa alternativa è stata immediatamente messa in atto (due esempi per tutti: da una ditta che ha in appalto i servizi di portierato e di pulizia alla Scuola Normale di Pisa nel privato, o nel Comune di Firenze nel pubblico impiego). Questa semplice frase svela la volontà di tutelare le aziende (probabilmente le più piccole) costringendo lavoratori e lavoratrici a dichiarazioni che potrebbero, qualora si manifestassero sintomi nei giorni successivi alle autodichiarazioni, essere considerate mendaci, dunque passibili di denuncia per falsa dichiarazione perché configurabili come reato penale.

La stessa formulazione “suggestivi di COVID-19” è così generica e allusiva che fa evidentemente riferimento a sintomi che possono essere attribuiti al coronavirus, anche se non verificati da test sierologici o tamponi:; questa autodichiarazione, che non ha alcuna base giuridica, come scritto sopra, conferma quello che abbiamo da sempre denunciato, che l’approccio di Rossi e della Giunta di centrosinistra difende gli interessi del padronato e le istanze dei cosiddetti poteri forti, cioè di quei settori sociali che oggi è poco di moda e non politicamente corretto definire di classe, della borghesia dominante.

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