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Intervista a Paolo Sarti, consigliere di Sì, Toscana a Sinistra

Da questa crisi non si esce solo con liquidità, ammortizzatori sociali, reddito di emergenza e patrimoniale: dobbiamo ripensare il nostro intero modello economico e orientare gli investimenti pubblici non certo verso nuovo cemento e mega opere ma verso i beni comuni e i servizi pubblici, individuando settori produttivi strategici, convertendo ecologicamente le produzioni, strutturando una vera economia circolare.

Dal 18 maggio la Toscana rimette la testa fuori casa. Aprono praticamente tutte le attività commerciali e produttive. Come giudichi il provvedimento del governo e l’atteggiamento tenuto dal presidente Rossi?

Io sarei stato più prudente: avrei dato priorità ad alcune attività per vedere l’effetto che faceva sulla circolazione del virus e mi sarei preso almeno un paio di settimane per la valutazione prima di aprire a tutti. Dobbiamo tener conto che queste riaperture mobilitano una gran quantità di persone ed incidono tantissimo sui trasporti pubblici e privati con molte più occasioni di entrare in contatto col virus.

Il governo, consultandosi con gli esperti, mi sembrava avesse preso questa strada prudenziale. Poi si è fatto “incalzare” dai governatori di alcune regioni che spingevano per la riapertura totale e ha fatto retromarcia sulla linea prudenziale. Rossi in realtà non era fra questi governatori.


Dopo il picco di nuovi casi positivi registrato il 4 aprile (406 casi in Toscana), nelle ultime due settimane ci si è assentati ad una media di 30 nuovi casi al giorno. Come interpretare questi dati? Abbiamo sconfitto il virus?

No, non abbiamo sconfitto il virus, l’abbiamo rallentato. Circolano frasi di nessuna scientificità, tipo “il virus si è attenuato” o “il virus è meno aggressivo”, nulla di tutto questo! Il virus si diffonde meno rapidamente perché distanziamento sociale, stare tutti a casa e portare le mascherine lo hanno ostacolato. Ma se abbassiamo la guardia troppo presto, potremmo riavere picchi di contagio e non riuscire a gestire e curare perfettamente le persone che sviluppano una sintomatologia grave. Ne sappiamo troppo poco ancora di questo virus e in attesa del vaccino (e non saranno tempi brevi) dobbiamo essere prudenti, rallentandolo il più possibile con la mascherina e il distanziamento sociale soprattutto negli ambienti al chiuso (uffici, fabbriche, centri commerciali, teatri, cinema… ecc.)

Abbiamo chiesto dall’inizio della pandemia di prevedere uno screening a tappeto con centinaia di migliaia di tamponi. Ci sembra che non tutti abbiano colto dal primo minuto questa necessità, ancora prima di scontrarsi col problema reagenti.

Era la prima cosa da fare, tamponi e protezioni individuali adeguate! Gli ospedali, le RSA… se fossero stati presi questi provvedimenti prima, avremmo potuto evitare tanti morti e tante sofferenze! E’ vero che tutti abbiamo sottovalutato, in tutto il mondo. Ma quando abbiamo preso coscienza della gravità del problema, avremmo dovuto affrontare la pandemia con gli strumenti adeguati: un piano di emergenza nella nostra Regione c’era già dal 2015. Eppure non è stato minimante consultato, valutato se potesse essere una base da cui partire. E si è scambiata una emergenza, che era di sanità pubblica, per una emergenza di terapie intensive: il risultato è stato che, quando la pandemia è esplosa, gran parte delle risorse disponibili sono andate necessariamente a potenziare il sistema ospedaliero di terapia intensiva. All’inizio non sono stati isolati i casi, non sono state fatte le indagini epidemiologiche, non sono stati fatti i tamponi ai pazienti.

I medici sono andati in giro senza protezione individuale, si sono ammalati e inoltre hanno involontariamente diffuso il contagio. Il risultato è stato i 190 morti sul lavoro, fra medici, infermieri, ostetriche: colpa di un’emergenza affrontata male ma anche dei problemi di fondo della nostra sanità. E chi non si è ammalato, e ha potuto continuare a lavorare, lo ha fatto in condizioni sanitarie e psicologiche durissime. Li chiamano eroi ma loro non avevano nessuna intenzione di fare gli eroi, volevano e dovevano fare solo il loro lavoro. È chi non li ha protetti e ha devastato il sistema sanitario pubblica che li ha costretti a diventare eroi! L’emergenza coronavirus non è ancora finita e dobbiamo far sì che non lavorino da eroi ma in sicurezza: cioè protetti con i dispositivi adeguati, ma anche con turni sostenibili.

C’è voluto tanto tempo perché fossero disponibili le adeguate protezioni individuali, arrivate quando però ormai, e per fortuna, si stavano già riducendo i contagi. Non so se ci sono responsabilità giuridiche, penali, questo lo appurerà la magistratura. A mio parere però ci sono colpe di “imperizia”, come si dice in termini medici, e di inadeguatezza di cui, passata l’emergenza, dovranno rispondere chi ha amministrato la sanità in questi anni e in questa emergenza.

Chiariamo sui test sierologici (a risposta rapida o su prelievo… meglio, più attendibili): evidenziano un contatto col virus ma non dicono se la persona è ancora infettiva, per questo ci vuole il tampone. I test sierologici quindi servono per fare una mappatura (e non completamente attendibile, soprattutto per i falsi negativi) della popolazione che è stata in contatto col virus e questo ha un valore epidemiologico ma non “protettivo”. Per questo ci vogliono i tamponi: mancano i tamponi, mancano i reagenti? La Regione Toscana ora ha potenziato la sua capacità di analisi (…tardi), però adesso si è ritrovata col problema dei reagenti… ma perché non si è pensato a mettere ad esempio l’Istituto Farmaceutico Militare a produrli in grande quantità invece di ricorrere ai privati?

Come noi parli spesso della necessità del potenziamento della medicina territoriale e dei medici di base, anche (soprattutto) in chiave di prevenzione e monitoraggio. Perché sono così importanti? Questi due mesi sono serviti a molti a riflettere sul senso profondo del sistema sanitario nazionale pubblico. Ne usciamo tutte e tutti più consapevoli di questa necessità o continueremo ad affidare al privato settori cardine della nostra esistenza come il diritto alla cura?

Il coronavirus ha messo sotto gli occhi di tutti quanto sia indispensabile la sanità pubblica, universalistica. Ha fatto capire, anche a chi non lo voleva capire, gli errori compiuti in questi anni: tutti quei tagli, quelle riduzioni di letti, di personale, sia medico che infermieristico, l’aver trascurato il territorio, aver esternalizzato e dato al privato pezzi del servizio sanitario pubblico (vedi le RSA). Tutte cose che hanno spianato la strada al coronavirus e che gli ha permesso di fare disastri.

I medici di famiglia sono stati lasciati soli molto a lungo: chiedevano protezioni, di poter fare i tamponi: erano in prima linea sul territorio e avrebbero potuto fare una sorta di diga alla diffusione del virus. I medici di famiglia (MMG) sono indispensabili, così come i Pediatri di famiglia (PDF) (siamo l’unico paese al mondo che prevede per ogni bambino un pediatra pubblico!) però dobbiamo inserirli nel Servizio Sanitario Nazionale: hanno un contratto di tipo libero/professionale e non è possibile armonizzarli e integrarli fra i lavoratori della sanità pubblica. Basti pensare che possono decidere se lavorare all’interno delle “Case della Salute” (strumento ideale per rafforzare il territorio …è nostra la legge regionale sulle Case della Salute, e ne sono orgoglioso!), oppure no, a loro giudizio!

La commistione, la poca chiarezza, fra pubblico e privato in sanità ha fatto danni.

Ne è un esempio l’intramoenia: ha generato disparità di accesso ai servizi, disparità soprattutto per disponibilità economica. L’intramoenia è servita ai pazienti per scansare le code. Un’apposita indagine conoscitiva della regione ha fatto emergere che l’aver fatto una visita in intramoenia abbreviava i tempi di attesa di un intervento chirurgico a discapito di chi era in lista e non ha potuto economicamente aderire all’intramoenia. Ma è stata mal governata anche perché ha concesso ai medici di applicare tariffe inique ed esose. Sono sempre stato contrario all’intramoenia, abbiamo presentato varie mozioni per chiuderla. Si dice che l’intramoenia fa guadagnare le usl … non è vero: i soldi che vanno al servizio pubblico bastano appena per farla funzionare!

È vero che in qualche modo riduce le liste di attesa nel pubblico, ma solo per chi può permettersela: quindi bisogna velocemente attrezzarsi per ridurre le liste di attesa, assumendo personale, ed estendendo l’orario di lavoro dei macchinari diagnostici. Si assumano quindi medici, infermieri, tecnici per adeguare le giuste e necessarie esigenze dei cittadini nel servizio sanitario pubblico. Ma si pensi anche a ridisegnare un servizio sanitario pubblico che metta al centro il territorio e che riporti all’interno i servizi che erano stati delegati al privato. E soprattutto si finanzi tutto questo in modo adeguato, perché non rimanga solo come buona intenzione, come ulteriori annunci… ne abbiamo già sentiti troppi!


Come valuti l’adeguatezza delle misure prese a livello nazionale e regionale per la riapertura rispetto a fabbriche/uffici, mezzi di trasporto, scuole, sia dal punto di vista medico che politico/amministrativo e che previsioni possiamo fare per il prossimo futuro?

L’epidemia ha reso ancor più acute le disuguaglianze nel mondo del lavoro. E ha reso il lavoro doppiamente insicuro. La così detta “fase 2” non può che avere come priorità assoluta la piena sicurezza di chi lavora. Controlli più rigidi, tamponi, protezioni individuali prima di riaprire le industrie. Poi si pone il problema del trasporto pubblico: è impensabile che i lavoratori prendano tutti i propri mezzi bisogna, quindi rendere “sicuro” il trasporto pubblico …oggi però sempre più privatizzato e così siamo costretti a mediare tra chi gestisce il profitto e la salute collettiva.

Questa emergenza ci impone non solo di valutare tutto questo ma dobbiamo anche ripensare il modello economico complessivo: tornare al modello precedente sarebbe fallimentare.

Da questa crisi non si esce solo con liquidità, ammortizzatori sociali, reddito di emergenza e patrimoniale: dobbiamo ripensare il nostro intero modello economico e orientare gli investimenti pubblici non certo verso nuovo cemento e mega opere ma verso i beni comuni e i servizi pubblici, individuando settori produttivi strategici, convertendo ecologicamente le produzioni, strutturando una vera economia circolare.

Quanto alla scuola, e quindi all’infanzia, all’adolescenza, le misure emanate dal governo hanno tenuto in scarsa considerazione queste fasce di popolazione, che sono le più vulnerabili e che la situazione di isolamento prolungato in cui stanno vivendo rischia di provocare, o di acuire, problematiche che ne compromettono in modo importante la salute e il benessere. La chiusura prolungata delle scuole sta provocando disagi significativi alle famiglie che hanno dovuto completamente riorganizzare la propria quotidianità, e che la fase 2, con la riapertura delle attività produttive, commerciali e dei servizi, rende ancora più complesso l’accudimento dei bambini e dei ragazzi, dato che molti genitori devono tornare fisicamente nella propria sede di lavoro. La didattica a distanza non può che essere considerata una misura temporanea necessitata dall’emergenza. Essa inevitabilmente pone problematiche di non poco conto nell’utilizzo, in relazione alle differenti fasce di età, e ne evidenzia disparità economiche e sociali.

Ci vuole una specifica unità operativa speciale che riunisca differenti competenze ed esperti di varie discipline (pedagogia, psicologia dell’età evolutiva, pediatria, scienze dell’apprendimento, politica scolastica e virologia) al fine di elaborare una strategia complessiva per l’infanzia e l’adolescenza nella fase 2 capace di dare risposte ai bisogni di bambini/e, ragazzi/e ed adolescenti, nonché sostegno a genitori e famiglie.

Non si tratta solo di riaprire le scuole: come questa emergenza ha evidenziato i difetti e le precedenti problematiche della sanità e del mondo del lavoro, allo stesso modo deve essere occasione per ripensare le dinamiche dell’educazione e della costruzione sociale degli individui.


Questa legislatura, seppur in ritardo, volge al termine. Nonostante non fossi un “politico” di professione, ti viene riconosciuto unanimemente un grande contributo politico, una serietà e abnegazione che è merce rara nell’agone politico attuale. Vogliamo chiudere con due domande, la prima è un po’ una curiosità biografica: qual è la tua cultura politica, i tuoi riferimenti, la tua militanza giovanile?
E l’altra su questa esperienza amministrativa: come l’hai vissuta e come -ci auguriamo- la continuerai.

Ero studente universitario nel sessantotto, con occupazioni, proteste, primi impegni sociali, lunghe discussioni e dibattiti fino a notte inoltrata… Non ero iscritto a nessun partito e la mia militanza politica l’ho sempre messa nella mia professione, convintamente nel servizio pubblico: consultori, asili nido, corsi di preparazione alla nascita. Ho sempre pensato che il mio impegno professionale in queste attività fosse qualcosa di molto politico, che ci fosse un modo di fare medicina che potesse avere profondi risvolti di equità sociale. Quando ai miei settant’anni sono dovuto andare in pensione il Corriere della Sera ha fatto una locandina che diceva “Va in pensione Sarti, pediatra comunista”… mi ha fatto molto piacere!

Quando sono stato eletto consigliere regionale ero veramente digiuno di esperienza amministrativa ma con una gran voglia di “concretizzare” le mie idee politiche di molti anni a un livello superiore, con la speranza di essere utile a più persone. Giorno giorno ho imparato a muovermi nei meandri e nei meccanismi del consiglio regionale… ora sono più sicuro, più inquadrato politicamente… Il “primo giro” serve per fare esperienza, se gli elettori mi ridaranno fiducia, sarò ancora più efficiente e produttivo come dici tu “… nell’agone politico”!

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