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Il governo annuncia l’intervento pubblico per le acciaierie di Piombino

Ci sono voluti 7 anni di promesse non mantenute, di illusioni, di prese di giro narcotizzanti. Sette anni in cui chi si azzardava a dire che, senza l’intervento dello Stato non saremmo mai usciti da questo impasse asfissiante, era dileggiato da “novecentesco”, “demagogico” e altri appellativi ben peggiori. E perché? Perché il padrone non voleva che se ne discutesse.

Le grandi multinazionali hanno bisogno di spostare l’economia e la ricchezza, in virtù delle proprie esigenze di accaparramento, dove il lavoro costa niente o poco più e dove non si devono spendere soldi per sicurezza, misure antinquinamento etc. etc. D’altronde, si sa, il profitto non va d’accordo con la salute della gente e dell’ecosistema, e soprattutto con la felicità dei lavoratori. E allora, per il grande capitale non è sufficiente dire che il liberismo è l’idea migliore; per il capitale è indispensabile affermare il pensiero unico, ossia che il mercato globale è l’unico sistema possibile e che l’intervento dello stato nell’economia è inconcepibile. E’ ovvio, uno stato piloterebbe l’economia in maniera da salvare il tessuto industriale sul proprio territorio, perché per una comunità una fabbrica è la ricchezza che produce posti di lavoro ed economia diffusa. Per uno stato una fabbrica è un volano di circolazione di ricchezza, anche in termini di introiti fiscali e contributivi. Tutta ricchezza che se governata da uno stato non finisce nelle tasche dei grandi capitalisti.

I comunisti hanno sempre sostenuto l’intervento pubblico nell’economia e per questo hanno sempre costituito il pericolo più grande per le multinazionali. Nona bastava sconfiggerli, per loro era necessario negare l’idea socialista. Era necessario affermare che il comunismo non è viabile, non è semplicemente peggiore del liberismo, ma è impossibile. Le multinazionali hanno bisogno di diffondere il pensiero unico e pervasivo dell’impossibilità di funzionamento di un qualsiasi sistema diverso dal turbo liberismo. Neanche un keynesiano stato sociale è ammissibile, perché controlla la ricchezza che il grande capitale vuole afferrare.

Per questo, la strategia è stata di oscurare i comunisti, perché propongono un’idea di sviluppo diversa, di un’economia diversa e soprattutto di una società diversa.

I governi di questi ultimi anni, impauriti, e in una certa misura assoldati, di fronte alle minacce della troika e della grande finanza, hanno imposto il verbo del disimpegno pubblico e hanno mancato per 30 anni di fare politica industriale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, l’Italia, che basava la propria ricchezza sul tessuto industriale, al punto di essere ritenuta la quinta economia del globo, ha perso un terzo di questo tessuto. Siamo un paese senza risorse naturali e non possiamo permetterci di continuare ad assistere inermi a questo sfascio. Specialmente per un settore come quello siderurgico, strategico per l’indipendenza economica e produttiva di un paese grande come l’Italia.

Si aggiunga che in un’epoca in cui il pianeta langue di fronte all’asfissiante stretta dell’inquinamento, il controllo pubblico delle industrie pare l’unica soluzione per contenere la distruzione dell’ecosistema. Ormai è dimostrato, il profitto è incompatibile con la tutela ambientale.

Adesso, dopo 7 anni, qualcun altro, per fortuna, inizia a sostenere la necessità di un intervento dello Stato per far ripartire le acciaierie di Piombino, magari facendo ricorso a Cassa Depositi e Prestiti, proprio come proponeva il PRC nel 2013.

Alla buon’ora…verrebbe da dire.

A questo punto però l’intervento deve essere qualcosa di programmato seriamente. Nella consapevolezza che il privato, JSW nel caso della fabbrica piombinese, non sarà mai disposto ad impegnarsi in investimenti i cui rientri siano troppi diluiti nel tempo. Proprio JSW ha dato dimostrazione di non essere affidabile. Sappiamo che ha disposto investimenti per circa 2,5 miliardi di dollari in varie acciaierie in America e altrove, ma per Piombino sono previsti solo spiccioli. E’ più di un anno che l’imprenditore indiano promette un piano industriale, senza che se ne veda l’ombra. Eppure un progetto veramente articolato e parametrato alle peculiarità del sito industriale piombinese sarebbe fondamentale per una autentica ripartenza. C’è la necessità di ridisegnare gli impianti lontano dal centro abitato, ma questo significa realizzarli nell’ex padule, con tutte le implicazioni conseguenti. Non si possono insediare impianti pesanti in un’area geologicamente particolare come quella, senza la preventiva fase si studio e progettazione. Va riprogrammata tutta l’area. Ma fino ad ora non abbiamo avuto notizia alcuna dei progetti di Jindal. E cosa dovremmo aspettarci adesso? In 15 giorni? Verrebbe da sospettare che la multinazionale asiatica sia venuta qui solo per mettere un piede in Europa, per riservarsi le potenzialità del porto di Piombino e contemporaneamente godere della possibilità di evitare l’antidumping, in virtù della possibilità di laminare in Italia il semiprodotto proveniente dalle sue acciaierie asiatiche.

È chiaro quindi che lo Stato non possa limitarsi ad un finanziamento a pioggia, a beneficio dell’imprenditore privato, non solo perché in genere non siamo a favore di questo tipo di politica, ma perché nel caso specifico non pare ricorrano condizioni di affidabilità.

È ineludibile un tavolo congiunto in cui il ministero, l’imprenditore e le amministrazioni locali (regionale e comunale) si confrontino sul da farsi, ossia le bonifiche e la pianificazione di un nuovo progetto infrastrutturale, che concepisca in maniera complementare e armonizzata il porto, la ferrovia e la viabilità stradale e, sulla scorta di tutto ciò valutare e progettare una nuova fabbrica. Non sono più accettabili soluzioni balbettanti ed equivoche come quella della “variante tempra”.

Se la società indiana continuerà a dimostrarsi inaffidabile, allora lo Stato dovrà saperla mettere alle strette e all’occorrenza allontanarla, per sostituirsi ad essa ed operare finalmente nell’autentico interesse della comunità.

Proprio in questa fase è indispensabile che il governo programmi un consiglio in cui si affronti unitariamente la questione della siderurgia italiana, mettendo insieme l’analisi e le soluzioni per tutte le criticità del paese da Taranto a Piombino, evitando enunciazioni elettoralistiche, connotate spesso per rappresentare soluzioni a macchia di leopardo.

Soprattutto, è essenziale che lo Stato non si limiti a finanziare, ma sia anche titolare di un consistente pacchetto azionario e si impegni a dirigere la ripartenza.

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